Christian Mancini è uno dei co-fondatori del gruppo-progetto “Tutta un’altra scuola”, ecologo, esperto di apprendimento esperienziale e outdoor education, nonché ideatore di Nature Rock. Raffaella Cataldo è insegnante, homeschooler, formatrice in pedagogia non direttiva, apprendimento e didattica esperienziali.
Ospitiamo il loro interessante intervento, un’analisi del momento attuale, di ciò che si prospetta e delle strade alternative percorribili.
«La vita e l’apprendimento sono strettamente connesse, tanto che chi è vivo non può fare a meno di imparare. Come ci ricorda Paul Watzlawick, non si può non comunicare, si comunica sempre, e solo una piccola parte nella globalità dei linguaggi della comunicazione avviene attraverso l’uso delle parole. Il resto è relazione in uno spazio attivo e vitale e questo vale anche per l’apprendimento. Non imparare è impossibile, poiché la vita stessa è programmata, per legge naturale, all’apprendimento, alla comunicazione e alla relazione con l’altro da me.
Se così non fosse, non ci sarebbe evoluzione di alcun tipo. Proprio perché connesso strettamente alla vita e di importanza vitale, la natura ha predisposto che l’apprendimento sia collegato al piacere, alle leggi basate sull’attrazione. Imparare attiva la curiosità, diverte, appassiona. I mammiferi imparano da sempre attraverso il gioco, l’esperienza libera e l’imitazione delle azioni dei grandi. Una scuola che riapre sotto misura di emergenza deve considerare i messaggi oppressivi che emette e gli apprendimenti disfunzionali che provoca sia negli adulti, sia negli alunni. Nella prima fase del lockdown abbiamo dato il primato a una prospettiva di controllo e sicurezza misurabile. Abbiamo seguito una leadership sanitario scientifica affidandoci esclusivamente alla numerica con la sua logica razionale. È ora di cercare il compromesso con una leadership umanistica, che ci proponga un cambio di paradigma lontana dal dualismo e dalla riproposizione di poli opposti, più invece verso un paradigma olistico-scientifico dove spirito, corpo, emozioni e pensiero sono da considerare un’integrità.
Crescere significa agire nell’ambiente e questo richiede occasioni di espressione e libertà di movimento
La qualità delle nostre relazioni determina la nostra soddisfazione personale: se viviamo relazioni soddisfacenti, riceviamo vitalità ed entusiasmo anche nel rapporto con noi stessi. Le nostre relazioni in ambito professionale determinano anche il successo lavorativo. Nel campo dell’educazione la relazione è tutto: il contenitore, il contenuto, e lo strumento di azione. Per questo credo fortemente che ogni dinamica a scuola inizi dalla qualità della relazione. Mi auguro di vedere una scuola che ritorni a valorizzare il contatto, l’espressione di sé attraverso un canale diretto, senza intermediazioni e spesso forse anche nemmeno solo attraverso l’uso della parola. L’auspicio è di superare il disagio della connessione profonda con l’altro e trasformarlo in emozione positiva di incontro. Noi desideriamo profondamente essere in relazione piena e appagante con gli altri, ma quando viviamo la relazione spesso troviamo, nostro malgrado, in noi e negli altri, diversi ostacoli che ci frenano o ci portano a un risultato opposto. E’ come essere affamati ma non riuscire ad assimilare il cibo che ci può sfamare. La relazione richiede diverse qualità, che possiamo scoprire attraverso le esperienze di formazione. Il team, il corpo docente è una grande risorsa, a patto che si abbia la disponibilità a viverlo come tale, disponibilità che dipende principalmente da noi stessi.
Togheter Everyone Achieves More (Insieme tutti raggiungono di più)
Come possiamo accettare una scuola che rinuncia al compagno di banco? Come possiamo accettare un corpo docente che ha le mani scollegate dai piedi? Il punto di partenza nel gruppo a scuola, siamo noi stessi. Verità teoricamente accettata, ma estremamente difficile nella pratica. In genere, attraverso un automatismo relazionale rapidissimo, tendiamo a pensare che se solo gli altri capissero o facessero diversamente, le cose migliorerebbero all’istante. Puntiamo il dito facilmente contro gli altri, anziché verso noi stessi.
Partire da noi stessi, sì. Perché un altro può parlare e volerci aiutare, ma se non c’è in noi la disponibilità all’ascolto, non potremo ricevere nulla da lui. Inoltre, la formazione scolastica ed educativa che abbiamo ricevuto, basata sulla valutazione, sulla competizione a base conflittuale, e che induce a ricorrere all’inganno per poter ottenere un po’ di libertà di azione, ci ha lasciato una forma mentis che genera trappole importanti nella vita di gruppo: alcuni termini, in maniera meccanica e pavloviana, ci inducono automaticamente a certi tipi di comportamento: ad esempio, se ci si divide in gruppi e si hanno obiettivi diversi, è quasi scontato che siamo nemici e dobbiamo contrastarci. In genere i concetti di obiettivo, successo, efficacia, ci catapultano in una visione conflittuale con l’altro. Così come la presenza di innumerevoli regole ci induce a trovare il modo di ingannare per avere la meglio sugli altri. Io mi auguro di vedere una scuola che sia disponibile:
− a lasciare spazio all’altro
− al dialogo
− alla lentezza dell’incontro
− all’attesa dei tempi del gruppo
− alla comprensione reciproca
− all’accettazione reciproca
− a custodire e permettere l’espressione di ciascun singolo nel gruppo, oltre alla propria
− a non rinunciare ad esserci e a dare il proprio contributo personale
− a non aver paura della complessità della relazione in gruppo
− a rendere gli obiettivi realmente comuni
− ad accettare la sfida di dare il primato alla persona, anche a scapito del risultato
− a capire insieme come far coesistere il benessere del gruppo e l’esigenza di realizzare un obiettivo comune rende l’azione di gruppo efficace..
E’ importante cambiare prospettiva su alcuni concetti critici, come quello dell’errore e della considerazione critica del proprio operato, che possono essere visti e vissuti come momenti creativi invece che come rimprovero o condanna a un voto numerico assolutamente ingannevole e discriminante. Mi auguro di vedere una scuola che scelga di dare spazio alla consapevolezza del team classe e di lavoro e non alla rinuncia del compagno di banco e dell’equipe, perché credo che in uno spazio dedicato ai bambini l’armonia di intenti, di azione e di relazione umana tra le persone adulte che di loro si occupano, sia di essenziale importanza, creando l’atmosfera che essi respirano e della quale si nutrono.
La relazione educativa è semplicemente una relazione umana, e come ogni relazione umana si cuce sui bisogni delle persone e non esclusivamente su una visione emergenziale, razionale e misurabile. Nella nostra cultura industriale del consumo, purtroppo, siamo indotti a considerare il modello principale di relazione quello in cui tutti i componenti sono produttivi. Potrei ridurre il percorso dell’umano al “nasci, impara, produci, consuma e muori”.
Tutte le altre relazioni, in cui uno o più componenti non hanno questa capacità o perché l’hanno persa, o perché ancora la devono conquistare, o perché se ne trovano sprovvisti dalla nascita, o ce l’hanno in modo diverso, vengono considerate relazioni, per così dire, speciali. In questa categoria finisce per cadere anche la relazione educativa a scuola se riapriamo con le condizioni dello status attuale emergenziale. Purtroppo questa visione è limitata e limitante se genera discriminazioni che si traducono in mancanza di rispetto verso le persone coinvolte. Se togliamo le definizioni di bambino, neonato, anziano, disabile, e li chiamiamo tutti persone, si aprono prospettive umane diverse e più oneste, nonché più rispettose dei diritti di ciascuno. Invito tutti gli adulti coinvolti nel sistema scuola a riflettere il loro rapporto con i bambini. Cosa cambierebbe se tutti noi adulti trattassimo i bambini a scuola come se fossero nostri più intimi amici e amiche?
Se l’obiettivo dell’educazione è tutelare l’apprendimento e la crescita, allora l’educazione diviene facilitazione: ossia permettere all’altro di sentirsi a proprio agio nel crescere. Chiedersi se le giovani persone a scuola siano a loro agio, e agire affinché lo siano, è un buon modo per facilitare. Se nel servizio educativo a scuola, tutti sono volti a facilitare i compiti di coloro verso cui sono responsabili (i dirigenti verso gli insegnanti e gli insegnanti verso le alunne e alunni), le azioni scorrono fluidamente e il benessere si diffonde.
Per concepirsi al servizio degli essere umani dovremmo riflettere su quale risultati attendiamo alla fine di ogni giornata a scuola? Chiediamoci: a cosa diamo più importanza, al processo o al risultato? Dove avviene la crescita umana del bambino (e nostra), nel processo o nel risultato? Il nostro sistema scolastico ci fa credere che sia il risultato la sede l’apprendimento: invece l’apprendimento – e dunque la crescita – ha sede nel processo. Ecco perché i processi hanno bisogno di tempo e lentezza, e in essi va tutelato il coinvolgimento della persona, il piacere, il sentirsi a proprio agio. Se non abbiamo questa consapevolezza, rischiamo di vivere i processi nella fretta di ottenere il risultato, il che porta insoddisfazione e perdita di gioia. Se ci si focalizza nel processo, prendendosi tutto il tempo e lo spazio necessari per viverlo, il risultato assume una connotazione tutta diversa, e in genere non viene più giudicato positivo o negativo, ma semplicemente come punto di conclusione di un processo, appagante perché ero presente e attivo, e veramente insieme all’altra persona.
Mi auguro di vedere una scuola in cui conti l’apprendimento esperienziale, in cui ci sia spazio umano per esprimere e agire, conoscere e imparare, per essere e sentire».