“Being and becoming” è il fim documentario di Clara Bellar, che fornisce innumerevoli spunti di riflessione sull’apprendimento spontaneo dei bambini.
Iniziamo da una citazione: “Se i bambini iniziassero la scuola a sei mesi e gli insegnanti cominciassero a impartire loro lezioni per imparare a camminare, in una sola generazione tutti comincerebbero a credere che l’essere umano non può camminare senza andare a scuola”. Geoff Graham
A interprearne il significato e ad analizzare il film è Barbara Mantovani, di cui riportiamo l’intervento.
«Questa affermazione riproduce perfettamente un tabù profondamente radicato nella cultura occidentale, così radicato che la maggior parte delle persone non è nemmeno consapevole che esista, né tantomeno che sia un tabù. L’uomo ha davvero bisogno di un luogo predefinito e di un orario programmato per imparare? Nella sua personale ricerca di un luogo che preservi creatività, autenticità, autostima e capacità di pensare autonomamente, Clara Bellar si imbatte nell’apprendimento spontaneo, detto anche automotivato o autodiretto. Qualcosa di totalmente sconosciuto nella società del ‘fare’, dove le persone che assistono ad un processo spontaneo, come di fatto è l’apprendimento (ma anche il parto!), non riescono semplicemente ad offrire la loro presenza fiduciosa, ma hanno necessità di intervenire, e quindi interferire, a tutti i costi, anche quando tutto sta andando per il meglio. E’ qualcosa di totalmente inconsapevole e viene fatto in buona fede, ma accade. Da qui la preziosità del film “Being and becoming/ Etre et devenir” , recentemente sottotitolato anche in Italiano, che mostra un punto di vista totalmente nuovo per molti di noi che siamo cresciuti con il tabù che per imparare ci deve necessariamente essere qualcuno che insegna.
Per dirla con le parole che Jean Liedloff nel suo “Il concetto del continuum”, se la natura del bambino è innatamente “giusta” e le sue motivazioni sono sociali e non antisociali, «iniziative che provengono dall’esterno o una guida non sollecitata, non sono positive per il bambino, in quanto non è in grado di fare passi più lunghi di quanto sia previsto dalle proprie motivazioni. Il desiderio e la curiosità che un bambino ha nel fare le cose da solo, delimitano la sua capacità di apprendimento senza sacrificare nessuna parte del suo sviluppo complessivo. L’essere assistito può soltanto rafforzare certe abilità a discapito di altre, ma nulla può estendere l’intero spettro delle sue capacità oltre i limiti innati di quest’ultimo. La sua completezza risulta quindi compromessa quando un bambino viene guidato in ciò che i genitori ritengono sia meglio per lui (o per loro stessi). Ne risente direttamente il suo totale benessere, il riflesso di tutti i suoi aspetti soddisfatti o inappagati».
Quindi, quando un bambino è tranquillo e sta bene, qual è la sua attività principale? Come dice Andrè Stern, oltre a molti antropologi e neurobiologi, l’essere umano nasce con il miglior dispositivo di apprendimento mai inventato, il gioco. E cosa c’è di più naturale e spontaneo del gioco per un cucciolo d’uomo? Peter Gray in “Lasciateli giocare” afferma: «Immaginate di essere onnipotenti e di dover capire come convincere i cuccioli d’uomo e di altri mammiferi ad allenare le capacità che è bene sviluppino per sopravvivere al meglio nelle loro condizioni locali di vita. Come risolvereste il problema? È difficile immaginare una soluzione efficace quanto creare un meccanismo cerebrale che li porti a voler allenare proprio quelle capacità e che ricompensi tanto impegno con una bella iniezione di gioia. In realtà, si tratta di un meccanismo creato dalla selezione naturale; il comportamento che ne deriva è quello che chiamiamo gioco. Chissà, forse questo meccanismo si guadagnerebbe più rispetto se lo chiamassimo per esempio “esercizio automotivato delle abilità esistenziali”, ma così svanirebbe ogni leggerezza e, di conseguenza, il gioco perderebbe efficacia. Quindi ci teniamo il paradosso. Dobbiamo accettare la futilità del gioco, se vogliamo renderci conto della sua profondità».
Si potrebbe quindi concludere che la natura sappia già tutto, abbiamo solo bisogno di re- imparare ad osservarla e a rispettarla, senza pregiudizi. A saper stare in una presenza amorevole, attenta e fiduciosa, invece che voler a tutti i costi fare qualcosa. Potremmo invece indirizzare le nostre energie a creare quelle condizioni ambientali affinché il gioco possa nascere spontaneamente e vivere la sua magia lontano da persone che osservano e pretendono di concettualizzare e comprendere ogni cosa. Quello che ci insegna Arno Stern dentro il Closlieu, dove il servant offre ai partecipanti del “Gioco del dipingere” una presenza rispettosa e non manipolatoria, che permetta, in una continuità non scontata, il rifiorire di una spontaneità aimè ormai lontana dalla maggior parte degli esseri umani, soprattutto bambini.
E le regole? Fare unschooling significa non avere regole? E fare unschooling significa non avere insegnanti? Guardate il film, ne riparleremo. Buona visione!.
Barbara Mantovani conduce a Castelfranco Emilia (Modena) il closlieu “Il gioco del dipingere”, seguendo i precetti di Arno Stern